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El hablador di Mario Vargas Llosa (Il narratore ambulante secondo Einaudi e Rizzoli) è un romanzo che insieme alle peregrinazioni di linguisti e missionari e indigeni nel labirinto della foresta amazzonica muove anche una tesi a proposito della genealogia delle narrazioni e dei limiti della letteratura.

Il disvelamento del «parlatore», ombra fuggevole e sottaciuta che viaggia di tribù in tribù per raccontare ai machiguenga dispersi nel continente i loro stessi miti, le loro stesse tragedie, la loro stessa vita in equilibrio tra il Kamabiria, il fiume sotterraneo dei morti, e il Menkoripatsa, il regno bianco delle nuvole, è la scoperta – o meglio: un ritrovare, una seconda agnizione – delle finalità liturgiche e comunitarie della parola.

L’arrivo del parlatore è imprevedibile e segno di buona fortuna. La tribù prepara il masato e le tinture di achiote per decorarsi il viso, gli si raccoglie intorno con le gambe incrociate e ascolta per lunghissime ore quel che già conosce e quel che c’è da conoscere: le proprietà magiche delle ossa di chobiburiti mescolate al fango, il grande raccolto di yucca della passata stagione, la nascita di Kientibakori e del suo esercito di demoni, l’iniziazione di un giovane sciamano con l’ayahuasca, le traversie amorose della luna Kashiri quando scese sulla terra, il catalogo delle malattie e delle guerre che hanno decimato il villaggio.

I machiguenga sanno di essere i machiguenga perché l’uomo che racconta (uno di loro, eppure diverso e lontano) è la memoria condivisa e le ragioni della fede, la promessa d’immortalità e il vincolo che li lega alle altre famiglie.

L’assenza di un canone scritto esige che il corpo e la voce facciano da intermediari. Per accedere alle narrazioni o dischiuderne la possibilità è necessario esserci, convenire nel medesimo luogo e tempo. La cosmogonia, la sapienza erboristica, i nomi delle divinità, le proibizioni ancestrali, la mappa dei fiumi e delle alture esistono solo quando il parlatore li evoca, e il parlatore si manifesta di rado. Non è sostituibile con pergamena e inchiostro, né è concesso a qualche aedo improvvisato mutuarne la funzione.

Il racconto è un prodigio della comunità.

Il Vargas Llosa che si aggira inquieto ne El hablador lo indovina prima e con maggiore entusiasmo degli antropologi che da venticinque anni studiano i machiguenga per conto dell’Istituto Linguistico Peruviano. Uno di loro, incalzato da domande sui parlatori, abbozza: «Li intrattengono. Sono i loro film, la loro televisione, i loro libri, i loro circhi, quei divertimenti che abbiamo noi uomini civili. Per loro, il divertimento è uno solo al mondo. I parlatori non sono niente più di questo». Vargas Llosa lo ammonisce con un sottile ribaltamento di prospettiva: «Niente meno che questo».

Nell’universo multimediale delle biblioteche e dei telegiornali e dei cinema e degli archivi digitali le narrazioni godono di un’accessibilità infinita, senza tregua ripetono i vecchi contenuti e ne fabbricano di nuovi, consentono (fin quasi ad agevolare) le solitudini gemelle di chi racconta e di chi fruisce. Ma questo gigantismo proteiforme sembra occultare un vuoto di responsabilità, un crollo d’urgenza. La parola è ovunque malgrado (o affinché) non si comprometta mai con l’essenziale.

Vargas Llosa, imbracciando un desiderio e un amore sconosciuti all’antropologo, rinviene nel parlatore machiguenga la forza di un linguaggio che la civiltà tecnologica e industriale ha confinato in qualche bozzetto arcadico intitolato a Omero o Virgilio: un raccontare che mette in gioco tutto, un favoleggiare che marca la differenza tra la vita e la morte. La tribù esiste fintanto che esistono le storie. È un principio creatore ben più viscerale e fattivo della «mitopoiesi» concettualizzata dalle teorie letterarie, un miracolo che avviene adesso e a poca distanza mentre le nostre parole – i nostri libri, i nostri quotidiani, i nostri discorsi alla nazione, la nostra pubblicità, le nostre cronache di guerra, le nostre omelie, i nostri vangeli – trasmutano e deperiscono e non lasciano tracce.

El hablador è il romanzo dello struggimento, della nostalgia e forse dell’invidia che Vargas Llosa matura al cospetto di una narrazione (quella dei machiguenga, ma anche quella di una scrittura intrepida e riformata) che trascendendo un ambiente feroce si assume l’onere di raccontare la sopravvivenza di un popolo, il suo ininterrotto camminare sotto il sole.

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↔ In alto:  Henri Rousseau, Tropical Forest with Monkeys, 1910.

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