Un lutto è una macchia in cui immergersi, sembra suggerirci Esther Kinsky con il suo romanzo Macchia edito dalla casa editrice Il Saggiatore, nella traduzione di Silvia Albesano. «Macchia» è un termine con molteplici significati, una parola polisemantica che può andare in molte direzioni, come d’altronde fa la protagonista, muovendosi a raggio per il paesaggio italiano. Escludendo il significato di colpa, si fa largo però il concetto di indeterminatezza, la macchia frastragliata di colore e soprattutto il termine macchia inteso come territorio più o meno esteso di vegetazione tipica di un luogo (come macchia mediterranea). Tutti elementi presenti e centrali nel romanzo.
C’è da dire fin da subito che il titolo originale del romanzo in tedesco è Hain con il sottotitolo Geländeroman. Geländeroman è diventato in italiano romanzo dei luoghi. Hain, invece, è stato tradotto con Macchia, riflettendo anch’esso, nella traduzione italiana, ancora più dell’originale (uno dei pochi casi), la stratificazione tipica di questo romanzo.
Macchia, che ha vinto nel 2018 il Premio della Fiera di Lipsia, è senza dubbio un romanzo in cui la capacità di scrittura è messa in primo piano rispetto al resto. Esther Kinsky, nata a Engelskirchen nel 1956 è traduttrice dal polacco, dal russo e dall’inglese e quindi non c’è da stupirsi che la sua sia una vera e propria arte nella scelta delle parole. Nel caso di Macchia, la sua dimestichezza con la lingua si mostra soprattutto nella compattezza, nella pacatezza e nella leggerezza delle frasi. Nel senso che nulla è superfluo e il ritmo dato dalla consonanza tra le parole diventa a sua volta contenuto e significato. Si ha la sensazione che nel momento della lettura avvenga un cross over tra scrittura e pittura, come se la scrittrice, mentre scriveva, avesse avuto in mente in realtà di realizzare un acquerello, un olio su tela, un affresco. È molto facile immaginarla seduta su uno sgabello, con un cavalletto e una tela, in attesa della luce giusta per dipingere, o anche, per scrivere. Ed è molto facile, leggendo le parole di Kinsky, sentire le pennellate veloci che dà, mentre descrive un borgo, una strada o un vicolo. Quando dice che esistono i giorni dei gatti e i giorni dei cani, per esempio. I primi sono senza vento, quando nulla si muove nelle ore del riposo e girando per i vicoli si incontrano solo gatti che si muovono lenti. Nei secondi invece, quando fuori il tempo è inclemente, nei vicoli del paese i portoni sono ben chiusi e sono solo i cani ad affrontare le intemperie e la solitudine.
Macchia è la storia dell’elaborazione del lutto grazie all’allontanamento da sé e dal proprio paese. Ogni posto che la protagonista sceglie nel suo peregrinare ha necessariamente un cimitero. E lei, in un continuo andirivieni tra le città dei vivi e le città dei morti, disegna idealmente una mappa dei cimiteri d’Italia, proponendo come elemento unificatore del paesaggio italiano il culto dei morti e della loro memoria.
Leggere Macchia è come stare ai bordi di un acquitrino a guardare per ore le risaie fermentare. C’entra moltissimo la contemplazione, osservare la realtà assorbendola e accettandola così com’è, rinunciando piano piano al proprio io. Inevitabilmente ne deriva un atteggiamento meditativo che dalla protagonista del romanzo passa impercettibilmente al lettore. È cambiare lo sguardo su ciò che si ha intorno e come fa la protagonista, provare a guardare la città dei vivi, in questo caso Olevano Romano, dalla città dei morti. La contemplazione è il terreno su cui s’innesta il peregrinare della protagonista; come i pensieri illuminati durante una meditazione, come gli uccelli che sostano lungo i fiumi e i rumori dietro le porte nei vicoli in un piccolo paese.
Grande personaggio è il paesaggio, che qui si fa narrativo, dà il ritmo giusto alla lingua, più elementi insieme che cooperano ognuno nella propria chiave. È una sinfonia e ogni sinfonia, di solito, è suddivisa in diversi tempi; quella di Kinsky ne ha tre. Nel primo la protagonista parte dalla Germania per l’Italia, apparentemente sulle orme dei romantici tedeschi, e avvera così il progetto che avevano programmato lei e il marito prima che lui morisse. Il viaggio quindi come elaborazione del lutto attraverso un Grand Tour desueto e diverso dai percorsi soliti del turismo dal Nord Europa. Olevano Romano, appunto, è la prima meta. Cerveteri, poi, e il mare selvaggio ed elegante della Bassa Maremma, Palestrina e Valmontone, e poi il Nord Italia, i dintorni di Milano, la Pianura Padana, solo per citare alcune delle gite che la protagonista affronta mettendosi in macchina da sola con il suo lutto. Un percorso inedito in cui l’autrice tenta di mettere in risalto i luoghi, talmente tradizionali, antichi e quotidiani da risultare intimi. Kinsky fa un’operazione inversa rispetto alla maggior parte degli scrittori, in cui l’elemento umano rappresenta, più o meno, l’80% e quello paesaggistico il 20%: costruisce, nel pieno controllo di una scrittura essenziale e visuale, un romanzo dei luoghi con brevi scorci umani.
Nella prima parte la narrazione scorre abbastanza sottotono, in preparazione di un discorso più intenso che si apre nella seconda parte, dove gli scenari umani aumentano e diventano più vividi. Non è un caso, e probabilmente la questione più urgente da risolvere a livello narrativo era l’elaborazione del lutto del padre. È come se giunta a questo punto, dopo un centinaio di pagine alle spalle, il filo narrativo sia teso al punto giusto per poter scoccare la freccia più importante. I ricordi riservati al padre e ai loro viaggi nell’Italia degli anni Settanta, quando la protagonista era una bambina e poi adolescente, sono di una vividezza notevole e veloce, come se andando sempre più indietro nel tempo le immagini diventassero più reali e fulminee. Cosa che, in fin dei conti, è autentico meccanismo della memoria a lungo termine. Come quando ricorda una cena in un ristorante, in cui lei e la sorella vengono autorizzate a seguire dei giovani sulla pista da ballo. Si lasciano andare, sono poco più che bambine e quello è forse il primo passo nel mondo degli adulti e della sessualità. Ma, come per tutto l’andamento del romanzo, lo sguardo della narratrice non è mai su di sé, e questo è forse uno dei pochi momenti in cui lei è protagonista dell’episodio che racconta. È paradossale ma Kinsky non parla quasi mai di sé direttamente, lo fa sempre di sbieco. Pur essendo un romanzo su una donna che ricorda due uomini importanti della propria vita, il marito e il padre, l’attenzione è tutta verso l’esterno. Si potrebbe quasi dire che il paesaggio rifletta l’intimità della protagonista, ma non è nemmeno questo. È un’elaborazione estroversa del dolore, è quindi un movimento inverso rispetto alla norma: non un guardarsi dentro alla ricerca di una soluzione, ma concentrarsi sul fuori, sulla ricerca lenta e metodica di un distacco da sé stessi.
Non è un caso che in un romanzo sull’elaborazione del lutto, in cui la presenza del cimitero è costante, l’unica morte vera e propria di cui l’autrice sceglie di raccontare è quella del padre. In una parabola che sarebbe molto superficiale definire solamente freudiana, la protagonista vuole risolvere la perdita del marito attraverso il racconto della morte del padre, per poi posare il suo sguardo sul concetto di morte in generale. Nella terza parte, quindi, l’attenzione misurata e metodica per i cimiteri è un’ulteriore grado di sublimazione del dolore.
Segnale inequivocabile, per chiudere il cerchio del discorso sul lutto, è l’uso pacato ma ossessivo del colore bianco. «L’immane asprezza biancastra, così brulla dall’altra parte della valle ispida che affondava dietro la necropoli, quella superficie solcata di cicatrici della città dei vivi, ormai riconoscibile solo di striscio e per la sua assenza, giaceva opaca come nell’ombra, sebbene la luce cadesse anche lì, perdendosi però nella roccia compatta.» oppure «Quando siamo ripartiti dal paese sulla collina di tufo, mio padre ha fatto una piccola deviazione al cimitero, per fotografare il panorama che si vedeva di lì». Non è una stima precisa, ma il bianco appare ogni due pagine, se non ancora più spesso e non è un caso che nelle religioni orientali sia simbolo di morte, al contrario che nella nostra. La sua densa presenza s’insinua nella descrizione della natura, dei volti, del cielo, contrapponendosi ai più turistici ocra e verde, colori in teoria onnipresenti nel paesaggio.
Ed è proprio sull’indeterminatezza dei confini tra gli scorci, i colori e più di tutto tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti che si gioca la partita del romanzo. Una lingua precisa e attenta, che si fa contenuto, e che sostituisce in verità l’io della narratrice. La protagonista, pur essendo l’unico personaggio che agisce e che realmente porta avanti la trama del romanzo, fa di tutto per scomparire. «Il cuore di piombo si compenetrava di tutto ciò che vedevo e mi si depositava dentro. Della vista degli oliveti nella nebbia, delle pecore sul pendio, della china dei lecci, dei cavalli che di tanto in tanto pascolavano in silenzio dietro il cimitero, degli scorci sulla pianura e i suoi piccoli campi scintillanti, bluastri di brina nei mattini freddi. Delle quotidiane colonne di fumo dei rami d’olivo ardenti, le ombre delle nuvole, la smorta sterpaglia invernale e i tralci violetti dei rovi di more sul ciglio della strada». In linea con l’atteggiamento meditativo che pervade l’intero testo non c’è l’egocentrismo del dolore, non c’è la violenza del ricordo, non c’è una colpa sospesa o un mistero da risolvere. La protagonista assorbe nella pazienza e nell’accettazione l’assenza delle persone che le hanno riempito la vita, cercando un significato più generale, più nobile da attribuire alla parola morte e trovandolo non nella concretezza, bensì nell’impossibilità di un confine netto e nell’assenza di definizione.
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