La trama alternativa (minimum fax) si colloca a metà tra memoir e saggio. Giusi Palomba ci fa entrare nella sua vita e nelle sue esperienze, per dimostrare che ci sono strade alternative per risolvere e pensare in modo differente la giustizia, soprattutto quando si tratta di violenza di genere. La condivisione di pratiche, pensieri e speranze contenute in questo libro permette di alimentare il dibattito sulle prospettive antipunitive e anticarcarcerarie, dimostrando che la trama alternativa per creare un altro tipo di società, è possibile. Tutto parte da un’accusa di stupro a Barcellona, che si trasforma in un’occasione per ripensare al sistema punitivo. Si creano su richiesta di Mar, la survivor dei gruppi per pensare a un processo di riparazione e trasformazione e si coinvolge anche Bernat, l’uomo che ha commesso l’abuso, portandolo a compiere un percorso collettivo per comprendere l’impatto della sua violenza e per cercare di ripararla. Giusi Palomba ci parla di questa esperienza collettiva e nuova, ci parla dei gruppi di riparazione di Barcellona e poi lasciata la Spagna ci porta in altri contesti, come Glasgow per descrivere un altro tipo di pratica e facendoci conoscere il femminismo anticarcerario, ci fa riflettere su serie, libri, film, sul senso di vendetta e sulla punizione e le sue alternative e mentre pensiamo ad un altro modo per affrontare le cose anche Giusi Palomba fa lo stesso: «continuo a riscrivere la trama di questa storia, provando a essere realista di una realtà più grande.»
Sono vari i punti di La trama alternativa in cui dici che stavi scrivendo questo libro, frutto di anni di lavoro e pratiche. Quando hai deciso di voler condividere le tue esperienze in merito alla violenza di genere e come hai ragionato sulla forma da dare al libro?
Parliamo di «condividere le mie esperienze», ma è buffo perché paradossalmente «la forma da dare» è stato il momento più solitario intorno a questo libro. La scrittura, da attività semiclandestina, è diventata il centro delle mie giornate quasi inaspettatamente, e le voci critiche a un certo punto hanno preso il sopravvento. Oggi riconosco l’importanza di essermi confrontata sia con delle insicurezze quasi invalidanti che con quella distanza dalle esperienze necessaria alla scrittura: in qualche modo mi ha permesso di trattare i temi che stavo maneggiando con la delicatezza e la lentezza necessarie, e soprattutto mi ha aiutato a mettere insieme un discorso tra le pagine che però è rimasto aperto, pieno di domande. Non potevo e non volevo dare risposte da sola, quelle sarebbero arrivate nello spazio della condivisione, che è tornato dopo la pubblicazione. Insieme sono arrivate tante emozioni nuove e complesse, un po’ quella fortissima della pubblicazione stessa, un po’ perché la forma data al libro è atipica e continua a cambiare e a sorprendermi, anche in base a chi legge.
Faccio un passo indietro per dire che la forma non è stato un vero e proprio ragionamento. Il libro si stava espandendo e iniziava a occupare uno spazio un po’ sghembo, ad assumere contorni non usuali. Ho vissuto con molta frustrazione l’idea di non riuscire a contenerlo in un genere narrativo o più saggistico riconoscibile, e la soluzione a questo dilemma è arrivata solo grazie alla mia editor Alice Spano, che mi ha aiutata a transitare verso una struttura che rispondesse alle mie esigenze specifiche – a questa non fiction ferocemente compromessa col reale che mi viene sempre fuori – più che a delle fantomatiche aspettative esterne.
Sono tantissime le esperienze che hai raccontato, le pratiche nuove che hai studiato e messo in campo, le associazioni e gli studi a cui hai partecipato. Tra tutte le situazioni che descrivi nel libro, quali sono i contesti e le situazioni che hai vissuto che hanno davvero cambiato il tuo modo di pensare riguardo alla violenza di genere?
Non c’è nessuna situazione in particolare, se non quelle in cui è stato possibile aprire spazi nuovi di cura e di riflessione. Ovviamente bisogna anche parlare di privilegio: quello di avere una comunità intorno lo è senza dubbio in una società come la nostra, e quello di poter studiare pratiche sostenibili per prendersene cura. Decostruire e disimparare sono processi che richiedono molto tempo: veniamo programmat* in una società che, in nome della produttività e per affermare politiche postfasciste, nega o liquida velocemente la possibilità di costruire relazioni generative. La stessa violenza di genere non è imprevista, è l’esito preciso di una società nata sugli squilibri di potere, nasce da disuguaglianze che generano ogni tipo di violenza.
Come si fa a uscire fuori dalla dicotomia su cui si basa la nostra società, quanto è difficile cercare percorsi alternativi che non prendano in considerazione solamente l’aspetto punitivo e come si può far riflettere e far pensare a pratiche alternative chi vede l’unica soluzione nel carcere?
A volte si fa coincidere la difficoltà con l’impossibilità, anche perché quando parliamo di pratiche alternative alla punizione, quasi si pretendono percorsi puliti e lineari, privi di contraddizioni, un qualsiasi appiglio per poter dire “ecco, non era possibile”. Questo nelle pratiche alternative non può esistere, e uno dei motivi è che siamo talmente compromessi con sistemi e istituzioni che non ci lasciano gestire la vita delle nostre comunità, ed è il motivo per cui si tende a ricadere continuamente in dinamiche punitive. D’altro canto, però, tutte queste scorie nel percorso nei sistemi punitivi le tolleriamo, scorie che spesso creano altrettante contraddizioni, ma quasi sempre molta più sofferenza, ulteriore violenza. Nella giustizia punitiva ammettiamo tutto, o per lo meno giustifichiamo tutto, anche non condividendolo in teoria, e perdiamo di vista molto spesso il fine ultimo, che dovrebbe essere prevenire la violenza, fare in modo che non accada più. Dunque, al momento, come viene fuori anche dal libro, a me interessa molto il lavoro sull’immaginario, e sul perché ci siamo ridotti a esaurire la giustizia nella punizione. Anche se io oggi sono molto concentrata sulla scrittura, le possibilità sono infinite per iniziare questo lavoro. Percorsi artistici, laboratoriali, di discussione di gruppo: tutto serve ad aprire spazi inediti. Il lavoro di evangelizzazione forzata a me non interessa affatto. Non credo sia utile, perché in qualche modo è come ergersi su un piedistallo morale. E siccome questo senso di superiorità è una roba che ho sofferto molto, nel tempo, in molte comunità, politiche e non, e in molte relazioni, ho un grande terrore di potermi solo avvicinare a riprodurla.
«Passo le giornate tra odio di classe e sfruttamento, e ora mi metto a partecipare a un corso in cui vogliono insegnarmi a capire cosa siano i conflitti, quanto ti fanno crescere, in che modo dovremmo accoglierli nella nostra vita e sul lavoro, che pagliacciata!»
Questo è il preludio del percorso di apprendimento sulla facilitazione e risoluzione dei conflitti, non ne sei convinta all’inizio: il lavoro ti divora, non capisci che diritto hanno quelle persone di insegnare cose a te, che nel conflitto ci vivi – «devo pagare per sentirmi scomoda?» – nonostante i buoni propositi il corso parte male e si affolla anche un altro tipo di pensiero: il giudizio dell’altro. «Rivedo nella mia testa i volti di persone del passato e del presente: come spiegare cosa stavamo studiando? Qualcuno avrebbe reagito come una delle mie voci critiche: ma che stronzata è questa? O anche: dobbiamo essere uniti e andare avanti verso l’obiettivo comune, cosa cavolo vi mettete a studiare?»
Come hai trasformato tutti questi dubbi e come hai fatto a scendere a patti con l’odio di classe e lo scetticismo e capire che una formazione ulteriore serve, che siamo tutto meno che arrivati nelle nostre comunità, anche se non c’è mai l’umiltà per dirlo?
La mia estrazione di classe si porta dietro fantasmi e voci, interne ed esterne, difficili da trattare al di fuori delle grandi narrazioni collettive. È come avere a che fare con una intimità indicibile. È stato difficile sia strapparsi in qualche modo il diritto a scrivere in un mondo, quello della «Cultura», dominato dalla classe media e da forme standardizzate di espressione letteraria e saggistica, ma anche darsi una voce all’interno dei modi soliti di fare politica.
Tornando all’esempio che citi, durante i miei studi su facilitazione e risoluzione conflitti ho frequentato persone che stavano facendo un lavoro politico che però metteva al centro anche quello sul privilegio. Invece di nascondersi dietro un’idea di collettività politica in cui tutti sono nella stessa barca quando non è mai così, si riconoscevano le esperienze specifiche, per poi ritornare all’alleanza. Questo mi ha permesso di ricalibrare tutto il mio pensiero: assistere a una loro decostruzione ha aperto spazi anche per me. Ci sono state pratiche di solidarietà reale con un effetto concreto e duraturo, che non hanno avuto bisogno di anni di militanza o passaggi teorici incredibili. Rimettere in circolo poi quella solidarietà in altri modi è stato poi naturale e mi ha aiutata a comprendere le potenzialità dei percorsi trasformativi.
Le esperienze che riporti nel libro sono estremamente formative, aiutano a riflettere, a crearsi nuove opinioni e io ho trovato tutto illuminante, ma sono tutte esperienze fatte all’estero. Sono stata testimone di una scena che mi è rimasta impressa, camminando in un viale ho visto una coppia, la ragazza piangeva e diceva di volersene andare e il ragazzo la insultava, mi sono fermata, ho ragionato, ma non mi è venuto nulla in mente che potessi fare. A cosa sarebbe servito chiamare la polizia? Avrebbero liquidato il tutto dicendo che era un normale litigio. Dove avrei potuto portare quella ragazza nel caso fossi riuscita ad allontanarla da lui? Come comportarsi in Italia di fronte ad una molestia, cercando una soluzione alternativa senza coinvolgere le forze dell’ordine?
Non sempre è possibile intervenire con pratiche alternative in situazioni critiche, né tanto meno in casi di violenza di genere, perché l’ingrediente fondamentale, che quasi sempre passa sottotraccia, è una comunità consapevole intorno. C’è questo passaggio da accettare se vogliamo andare avanti e persistere senza deprimerci nella creazione di risorse e figure nuove.
Probabilmente da sola non avresti potuto fare molto, e non è neanche detto che pur facendo qualcosa, la ragazza avrebbe risposto a un tuo intervento in un modo che avresti ritenuto giusto o sensato. Sappiamo che le situazioni più critiche sono quelle in cui le donne sono legate sentimentalmente a uomini che agiscono violenza. E chi si occupa di antiviolenza sa che il processo è molto più lungo e spesso riguarda una riconquista di agency e autostima, il miglioramento delle condizioni generali di vita. Per una molestia in pubblico di uno sconosciuto, paradossalmente abbiamo più margine di intervento: anche solo avvicinarsi e osservare può essere un deterrente al protrarsi dei comportamenti abusanti. Questo senso di impotenza quasi quotidiano che ci ritroviamo a provare può essere molto doloroso, per questo la costruzione di una cultura collettiva basata sulla responsabilizzazione è per me cruciale per riuscire a combattere anche la violenza di genere in manifestazioni singole.
Nel corso del tuo libro sono tante le serie tv e i film che citi come Bad Sisters o Una donna promettente che porta sullo schermo il compimento di una vendetta covata per anni, dopo una violenza o ancora, serie che mostrano prospettive differenti come Unbelievable o I May Destroy You, o che fanno chiarezza su personaggi che dietro la patina del successo nascondevano una fittissima rete di abusi come nel caso de I crimini di Jimmy Savile o Anatomia di uno scandalo. In Italia non ci sono simili prodotti, ma scandali e personaggi su cui fare chiarezza ce ne sono tantissimi. Su quale personaggio o situazione vorresti che fosse fatta chiarezza, che qualcun* facesse un libro o una serie?
Per quanto mi interessi molto ciò che sta succedendo nella narrazione del potere centrale, nel cuore del prestigio, se penso all’Italia, credo che manchino tantissimo le storie di gente comune. Qualcosa di simile a Shameless, per intenderci, o alle narrazioni working class come Rain Dogs o Derry Girls, che testimoniano la vividità della vita ai margini e le capacità di autorganizzazione e di risoluzione del conflitto e prevenzione della violenza. Assorbiamo tantissimo i prodotti esteri, ma non siamo in grado di vedere ciò che accade sui nostri territori, perché risultano meno cool nella rappresentazione audiovisiva. Inoltre, stiamo perdendo tutta una tradizione controculturale di racconto delle periferie e dei margini. Gli spazi di aggregazione e pensiero critico vengono sgomberati, distrutti e descritti come minaccia da governi sempre più destrorsi, e così si distruggono anche spazi per l’arte, per la creatività, e l’indipendenza necessaria a raccontarsi fuori dagli stereotipi imposti dalle sole logiche del profitto.
Gli spunti che ci hai dato ne La trama alternativa sono preziosissimi e oltre alle serie tv hai citato moltissime autrici, una enorme quantità di libri, articoli, saggi, per riuscire ad approcciarci meglio alle pratiche di cui hai scritto, per studiare, per aumentare il nostro senso critico, quali sono le letture imprescindibili da fare?
Senza minimizzare l’apporto di tutte le autrici citate in bibliografia, non indico mai la lettura come passo imprescindibile per aumentare il senso critico, in nessun ambito. Anzi, proprio perché considero la bibliografia del mio libro già troppo impegnativa, vorrei bilanciare parafrasando Brigitte Vasallo, un’autrice che amo molto, quando dice che non dovrebbero esserci gerarchie tra le fonti. La riflessione che scaturisce da persone che stanno affrontando percorsi critici di responsabilizzazione vale quanto qualsiasi lettura, anche se ognuno si avvicina come vuole, ovviamente. Ma dico questo per tentare di evitare anche quelle sottili forme di appropriazione che provengono da contesti più colti o accademici sull’esperienza vissuta: avere le parole giuste per descrivere le cose non equivale sempre a processi di decostruzione o a consapevolezze reali. La testimonianza diretta o indiretta di percorsi di responsabilizzazione, in qualsiasi forma, è per me il passaggio imprescindibile.